Il 5°Clone



La maschera del contadino



La maschera del contadino
Di Vildar

“Ogni giorno, sotto il sole,
con la pioggia o con la neve...”
Amava cantare mentre la zappa colpiva il terreno.
Come un medico esperto, tagliava senza ferire.
L'Eren scintillava verso sud, verso le terre dei cavalli. Le terre dei nobili, se così si potevano ancora chiamare. “La nobiltà viene dal sangue quanto l'onestà dal ladro”... dove l'aveva già LETTA?
Si, doveva essere stato molti anni prima, quando ancora il suo capo non si confondeva con la neve. Quello tra lui e la filosofia era stato un Eros. Quando gli orchi e i goblin erano arrivati a depredare e conquistare il villaggio avevano risparmiato “la cappella”: si trattava di una piccola costruzione munita di altare e dedicata a un qualche dio dell'agricoltura e del sole. La gente qui era sempre stata superstiziosa e non disdegnava di chiedere a quello strano luogo un po' di abbondanza per il proprio campo.
D'altra parte, le fiamme erano inutili di fronte a quella struttura in pietra, ne al suo interno si trovava materiale combustibile e tantomeno oggetti di valore. Così, nei decenni di tirannia a seguire, la cappella era rimasta intatta.
Ma sotto quelle pietre si erano sempre nascosti i tomi di quei pochi che ancora osavano acculturarsi: come con un amico, sull'orlo di un burrone, non volevano lasciare le loro mani con quelle della sapienza e farla cadere in un vuoto senza fondo. E per tutto quel tempo quello strano dio raggiante aveva custodito il sapere di uomini e donne in virtù di chissà quale preghiera degli antichi.
Anche Balthasar da giovane aveva letto quei racconti, quei dialoghi, quelle poesie. Era quella saggezza che l'aveva guidato a quel mestiere, quelle stesse pagine ingiallite e polverose a insegnargli i più intimi segreti di quest'arte.
Tutti sapevano sollevare una zappa. Tutti sapevano aspettare che il suo peso desse loro una mano a riabbassarla, in un mondo in cui era divenuto così difficile ricevere aiuto da qualcuno. E, ovviamente, tutti erano sostituibili nel farlo.
Ma Balthasar era un maestro nella sua arte, alla stregua dei migliori fabbri.
I grandi artigiani si riconosono da come il loro polso muove lo scalpello e dalla precisione delle rifiniture sul legno.
Per quanto riguardava lui, da giovane aveva acquisito la terra peggiore che c'era, quella pìù dura, più arida e secca, tanto che quel campo veniva chiamato “La Menopausa”.
Eppure, sotto la sua mano, aveva dato le spighe più alte e belle di tutto il paese.
E nessuno, nessun tiranno, ne brutale orco, ne goblin malefico, ne sgherro del monarca, ne sicario ne soldato discuteva quando c'era da mangiare.
Certo, avrebbero potuto rubargli il suo grano. Ma poi avrebbero dovuto trovare qualcuno abbastanza bravo da farne altrettanto, o mettere a tacere le loro bocche affamate.
Per questo lui viveva la sua vita tranquilla tra sguardi severi che poco considerava, offese di routine tanto per lui quanto per gli armigeri annoiati, il sole, le vecchie canzoni popolari che canticchiava stonato e una palizzata che teneva lui e gli altri “fortunati” lontano da tutto ciò di peggiore che potesse essere mai esistito la fuori. Sempre che la fuori potesse esserci qualcosa di peggiore dell'alito degli orchi che vivevano li dentro...
“... e portami di birre sette...
una con la mano, una con le tette...
una per l'agnello, una per il bue,
una per la capra, al cavallo due...”
I passi in armatura, soffocati dall'erba, si avvicinarono da dietro...
“Suddito Balthasar!...”
“Una per il grano... uh?”
Scattò sugli attenti, la zappa impugnata a mo di lancia. Il sole illuminava l'Eren all'orizzonte, il campo da arare, la casetta di legno e paglia che era costata tanto sudor e il vecchio dal volto abbronzato e sbarbato. Tra di essi, un giovane armato. La sua corazza era composta dei rimasugli di una dozzina di armature diverse, rimessi insieme da cinghie di cuoio.
“Dov'è tua figlia?”
Si, era sempre lui, lo scocciatore... Lui e il suo sguardo arrogante.
Non c'è che dire, il regime sapeva perfettamente come invasare i propri sottoposti. Sua figlia... non era veramete sua, l'aveva adottata e cresciuta come se fosse sangue del suo sangue, la pianta nata dal suo seme. Cera chi diceva che non era la più bella del reame. Balle!
Rimaneva comunque il meno peggio in quelle lande desolate.
E poi, era sempre sua figlia. L'aveva vista cresere e sbocciare, ma l'aveva tenuta lontano dai segreti del suo passato. Non voleva che subisse chissà quali sopprusi per colpa sua. Era cresciuta da contadinella, come tante altre, amante delle cose semplici e abituata al duro lavoro e all'idea che avrebbe dovuto essere una brava madre e donna di casa, sperando che suo marito si dimostrasse altrettanto capace e amorevole. Ma non sempre il destino sorride. E non aveva affatto sorriso quando quella mezza calzetta in armatura aveva deciso che se la sarebbe portata a letto. Il sorriso invece si disegnò beffardo sulla faccia del vecchio...
“Simons, di un po', non credo che l'ordine che ti hanno dato sia di disturbare mia figlia... o sbaglio?”
“Attento a come parli, vecchio!”
Tutte le volte che gli antichi parlavano nei loro libri di grandi guerrieri, descrivevano le loro armi come lame di acciaio scintillante e rilucente che brandivano con maestria mentre esse splendevano ai raggi del sole, spade di qualità eccezionale che che suonavano melodiose quando accarezzavano l'interno del loro fodero.
Evidentemente gli antichi dovevano avere un senso poetico che trascendeva molto dalla realtà, poiché quando la spadaccia unta e sporca di grumi di sangue uscì goffamente dalla sua elsa provocò un suono tanto stridulo che se fosse stata brandita dai leggendari guerrieri di un tempo avrebbe messo in fuga i loro nemici ancor prima della loro ferocia!
L'ilarità scemò subito alle parole del giovane Simons.
“Abbiamo bisogno di un sacrificio. Ora andrò a prendere Marianne!”
I suoi muscoli si pietrificarono mentre quel giovane senza scrupoli avanzava a passo deciso ma lento verso quella casa. Doveva agire. E di corsa.
Non poteva mettersi contro l'autorità, sarebbe stata la sua fine. E la fine di sua figlia.
Istintivamente, i ricordi della sua giovinezza tornarono alla mente.
Ricordi di giorni passati nascosto dietro a un altare di pietra con dei libri in mano.
Simboli, lettere, parole, frasi...
Un gesto rapido.
Una formula persa nel vento.
Poi, solo il rumore di quei passi in armatura. Non si era accorto di nulla.
Balthasar si avvicinò a passo rapido verso quel giovane...
“Ascolta...”
Il giovane si girò. Per la prima volta i suoi occhi erano attenti, stupiti, bramosi di divorare ogni parola del vecchio. Perfetto!
“Non credo che mia figlia sia la persona più adatta, non trovi?” disse con voce affabile.
Il soldato si ritirò imbarazzato, schiarendosi la voce..
“Beh, si, immagino di si...”
“Forse dovresti andare a cercare qualcun'altro, prima che i tuoi superiori...”
“I miei... Si, sissignore, certo! Vado!”
Una lacrima scivolò dalle sue guance. Sapeva di aver condannato qualcun'altro al sacrificio.
Era inutile tentare di illudersi della comodità della propria vita. Troppe volte aveva fatto finta di non vedere. Troppe volte.
La porta della casa si aprì di scatto: una giovane ragazza dai capelli ramati guardò stupita il vecchio padre.
“Andiamo. E' tempo che tu sappia...”   

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