Cenere e Ombra



Cenere e Ombra
Di Ekrenor

Le febbri giunsero al villaggio come ogni estate, sospinte dal vento di ponente insieme alle lugubri ceneri della foresta elfica in fiamme.
Il padre di mio padre narrava di un tempo, prima che l’Ombra calasse sulle terre degli uomini, in cui il vento di ponente non aveva la voce di un araldo di morte, ma oggi le febbri sono parte dell’immutabile ordine del mondo, regolari come i raccolti e le stagioni, e ineluttabili come il freddo, la fame e le decime dei Legati. E pertanto, quando fu evidente che Theodor, il borgomastro, non voleva rassegnarsi alla malattia che stava reclamando sua figlia, gli anziani del villaggio già vi scor-sero un presagio della sventura che si sarebbe abbattuta su tutti noi.
La forza d’animo del borgomastro era l’unica ricchezza che il nostro misero villaggio potesse vantare. Era un uomo così imponente e saldo che veniva naturale paragonarlo ad una quercia. Gli orchi lo avevano frustato così tante volte che la sua schiena pareva un tronco squarciato dal fulmine, e quando lavorava a torso nudo nei campi ognuna di quelle cicatrici ci riportava alla memoria un’occasione in cui le scudisciate inflitte a Theodor avevano salvato il villaggio da punizioni ben peggiori. Ma era il suo sguardo ad essere davvero straordinario: il suo volto era emaciato e stanco quanto i nostri, eppure in fondo agli occhi sembrava balenare una scintilla di speranza come la si vede solo negli uomini resi pazzi dal sussurro degli spiriti o nei ribelli che si oppongono all’Ombra. E forse un ribelle lo era davvero. Sebbene nessuno osasse parlarne ad alta voce, tutti al villaggio sa-pevano che figure silenziose come fantasmi si aggiravano nei boschi e nelle colline, tenendo alla larga razziatori orchi e schiavisti goblin. Tutti si erano imbattuti in improbabili viaggiatori disposti a barattare stivali foderati di pelliccia, fiasche di vetro e altri oggetti pregiati in cambio di un boccone di cibo. Ma era assai più prudente non porsi domande, fingere che non vi fosse nulla di strano, e i-gnorare le voci che parlavano di convogli di rifornimenti per l’esercito dell’Ombra svaniti nei boschi. Non erano solo voci, lo sapevo bene io che percorrevo quasi ogni giorno le foreste intorno al villaggio allestendo trappole per gli ermellini, ma avevo abbastanza buon senso da continuare ad unirmi al coro muto di chi non aveva mai visto nulla di insolito o sospetto. Insolito come le tracce di bivacchi recenti nelle grotte che si affacciano sulla gola dell’Acquavetro. Sospetto come Theodor che sguscia fuori dal villaggio all’alba per incontrare snelle figure incappucciate tra le rovine del vecchio mulino.
Quando il borgomastro condusse al villaggio il guaritore, nessuno ebbe la sfrontatezza di solle-vare obiezioni, sebbene da lungo tempo non si vedessero forestieri. Tutti sanno che è proibito viag-giare senza il benestare dei Legati dell’Ombra, e quei pochi cenciosi mercanti che si sobbarcano la fatica di giungere fin qua sono sempre gli stessi. Potevamo forse metterci contro Theodor, un uomo che ha speso la sua intera vita per il villaggio? Un uomo che desidera salvare l’unica figlia che la fame o i sacerdoti del dio oscuro non gli hanno sottratto, Aeryn, una fanciulla esile che non ha anco-ra visto dieci inverni. Ma le febbri le incendiavano ormai la fronte, la consumavano da dentro: troppe volte avevamo visto l’abbraccio del morbo spingersi fino a questo punto perché fosse ancora lecito sperare. Invocare gli antenati, maledire gli dei silenti, implorare persino l’Ombra, tutto era vano quando le febbri ghermivano il respiro. Ed ora questo guaritore che nessuno aveva mai visto giun-geva taciturno avvolto nell’aroma pungente dei suoi unguenti, e taciturno se ne andava salutato dalla risata argentina di Aeryn e dalle lacrime incredule di suo padre. Il guaritore era un maestro delle erbe, dicevano i giovani per spiegarsi quel prodigio, ma i vecchi scuotevano la testa. Quasi fossi una di quelle bestie maledette che i Legati si portano sempre appresso, io sentivo che su questo portento aleggiava l’odore di una stregoneria.
Il Legato giunse due giorni più tardi, nell’ora in cui il crepuscolo grondava colori. Chiuso nella sua armatura, in sella ad un destriero nero come lo stendardo dell’Ombra che ne annunciava l’arrivo, fece il suo ingresso al villaggio sfilando come un conquistatore tra le nostre povere stamberghe, seguito da un drappello di feroci orchi armati e corazzati come per andare alla guerra. Lo mandava il generale Keodred in persona, il demonio che conduceva le armate dell’Ombra lungo il fronte elfico della Marca Verde, ma non era mosso da quella brutalità selvaggia per cui era tetramente celebre il suo comandante. No, il Legato era spietato e metodico. Aveva ricevuto l’incarico di scoprire quale fosse la fonte della magia che gli astirax avevano fiutato due giorni addietro, e il suo sguardo gelido ci diceva che pur di andare fino in fondo avrebbe fatto ricorso a qualunque crudeltà. Quando si avvide che le minacce e le nerbate degli orchi non erano sufficienti ad ottenere le risposte che cer-cava, iniziò ad impiccare, uno ad uno, gli anziani del villaggio, gli infermi e tutti coloro che erano troppo deboli per lavorare nei campi. Le decime non avrebbero risentito della loro assenza. Il terzo giorno il Legato fece impiccare la piccola Aeryn. Theodor divenne una furia nel tentativo disperato di proteggere sua figlia, ma gli orchi gli furono addosso. Lo vedemmo dimenarsi e lottare a mani nude, invocando da noi un aiuto che non venne mai, fin quando l’involontaria misericordia di una lama orchesca ne spense per sempre l’inutile coraggio, risparmiandolo dall’atrocità di vedere ciò che sarebbe seguito.
Quando la corda spezzò il collo della bambina l’orrore era appena cominciato. Lo spirito di A-eryn non riuscì a trovare la via per lasciare quel corpicino appeso ad una forca. Incapace di rendersi conto della propria morte e torturata da una folle bramosia di sangue, quella cosa che era stata la fi-glia di Theodor continuò a divincolarsi per tutta la notte tra agghiaccianti ululati e singhiozzi che ancora avevano qualcosa di umano. All’alba decisi che non potevo sopportare oltre. Sfidando le di-sposizioni del Legato, presi la mia accetta e posi fine alle sofferenze di quell’infelice abominio, mentre fino all’ultimo tentava di strapparmi a morsi le carni con ferocia animale. Poi mi lasciai condurre dal Legato e gli rivelai tutto ciò che sapevo. Ma nel descrivergli come raggiungere la gola dell’Acquavetro, gli indicai la via più pericolosa, il percorso che sapevo l’avrebbe esposto alle im-boscate dei ribelli. Non so dire se il mio fu coraggio, vendetta o semplice follia. Non desideravo nient’altro che la morte di quell’empio sacerdote, quali che ne fossero le conseguenze. Il Legato prese con sé metà degli orchi, balzò in sella e si mise subito in marcia. Nessuno lo rivide più.
Oggi vivo celato tra le ombre dei boschi, chiuso in una sorda disperazione. E quando le ceneri giungono danzando sul vento di ponente non mi curo più delle febbri: l’unica immagine che ho negli occhi è quella della rappresaglia di Keodred, la carneficina che si dispiega nel mio villaggio tra le fiamme che lo divorano.